Un genere da riscoprire: la marcia sinfonica

Una breve riflessione di Giuseppe Scarlata che invita caldamente alla rivalutazione di questo particolare tipo di composizione molto apprezzato nel Meridione

Non c’è festa, non c’è sagra, non c’è processione, nei paesi, nei borghi, nei rioni cittadini, in cui la gente non pronunci una frase: “Sta passando la musica”. Si, proprio così, sta passando la musica. Non la banda. La musica!!
La banda, a dirla come Carapezza, è linfa, è il sangue della musica che si sposta in tutte le arterie cittadine.
Banda è sinonimo di musica che cammina. Che  cosa meravigliosa, la musica che si sposta: la musica è viva, la musica si muove e ci tocca e ci sfiora. Da dove si sposta?  Dai manuali di strumentazione, dai teatri, da un continente all’altro, si sposta dalla storia risorgendo e rimorendo.

In Italia un termine in modo particolare viene accostato alla banda: la marcia.
Quasi tutti ci siamo improvvisati compositori scrivendo una marcetta. E credo che tutti i grandi della musica si siano dilettati con questa forma di composizione.
Certo, alcune sono delicatissime, altre sono più maestose, molte sono scritte per momenti tristi, altre ancora sono ricordate, altre non le ricordiamo più.
Mozart, Beethoven, Berlioz, Wagner, Mahler, e si può continuare all’infinito, sono alcuni dei grandi che hanno scritto, accanto ai loro capolavori, marce per piccoli gruppi, per pianoforte, all’interno di opere e sinfonie, per esempio il secondo movimento dell’Eroica (l’op. 55 del Maestro), la marcia de Tannhauser. Quando qualcuno si sposa, sono d’obbligo le due marce nuziali di Mendelhsson (da Sogno di una notte di mezz’estate) e Wagner (da Lohengrin); e fanno da sottofondo anche nei momenti neri della nostra vita, pensate alla marcia funebre di Chopin (op.35 n.2) o quella di Petrella (tratta da Ione). Ci sono poi momenti solenni e patriottici dove sono d’obbligo le esecuzioni di marce: il nostro Inno Nazionale, per esempio, è una marcia, così come lo è quello francese.

La marcia è stata la composizione prediletta durante il periodo che va dagli anni ’20 agli anni ’50; seguendo l’insegnamento socratico dove particolari  armonie (eseguite con determinati ritmi) temprano l’animo umano, grandi statisti (tralasciando il loro fare di stato, non è questo il luogo per commentare) hanno preferito la marcia alla grande musica colta occidentale.
Le marce, intese come ritmo in musica che si suona marciando, hanno radici che si perdono nel tempo; si sa con certezza che già i primi guerrieri e poi i più grandi eserciti di epoca classica e romana utilizzarono strumenti a fiato per segnali nonché per impressionare gli eserciti nemici. E’ possibile pensare che già in epoca romana o forse anche precedente, la marcia (militare, trionfale, di trasferimento, funebre) fosse già in uso, in quanto gruppi di musici accompagnavano masse di gente durante i Trionfi dei condottieri vittoriosi oppure precedevano gruppi di attori sulle scene.
Nei secoli la musica colta, così come fece con le danze (le suite) si appropriò della marcia: non a caso, come ho già osservato in precedenza, molti compositori in in alcuni movimenti di Opere, Sonate, Sinfonie, prediligono il tempo di marcia.
Grande merito si deve a Lully, che stabilì la struttura della marcia: le prime due parti di 8 battute ripetute, con il caratteristico ritmo binario in 6/8 o 12/8, anche se non mancano le eccezioni; successivamente fu aggiunto un trio. Le marce della musica d’arte e le marce sinfoniche godono di una libertà formale.

Si può indubbiamente affermare che la composizione per eccellenza che distingue la banda italiana è la marcia sinfonica, che è figlia legittima della sonata classica.  Basti leggere come la maggior parte di esse ha una forma tripartita, o comunque una forma ben codificata e chiara: introduzione e I tema, sviluppo II tema, ripresa e chiusura. Naturalmente non tutte seguono questo schema e possono invertirsi alcuni ruoli, ma la maggior parte segue questa forma romantica di musica. Anche il linguaggio è rimasto fedele al romanticismo, dove le armonie sono quasi sempre le stesse (per lo più in Sib, Mib o Sol) e il passaggio alla sensibile non è nient’altro che un colore rosso verso un grigio lineare, che si dissolve brevemente.
Gli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900 furono anni di intenso fiorire di attività bandistiche: proprio in questo periodo si cercò di produrre un tipo di repertorio che non perdesse quel tanto amato lirismo melodico più colto e che allo stesso tempo continuasse ad essere vicino al tradizionale modo di percepire la musica da parte del popolo.
La marcia sinfonica ha ben rappresentato questa necessità, dove i virtuosismi dei clarinetti nei passaggi dei soli e i controcanti degli strumenti baritonali  portano alla mente le arie delle opere che il popolo tanto amava, il tutto ricco di un’intensa armonia fatta dall’accompagnamento dei corni e flicorni contralti, e dal pedale dei bassi oltre che gli accordi, spesso di terza, di strumenti intermedi (II clarinetti, sax contralti).

La marcia resta, dunque e comunque, la forma musicale che più rappresenta l’Italia all’Estero. Grandi compositori del ‘900 bandistico italiano hanno fatto della marcia il loro emblema: Piantoni, Abbate, Orsomando, Lanaro, tanto per citarne qualcuno, hanno scritto marce sinfoniche molto più emancipate dei giovani colleghi odierni.
Pensiamo un attimo a Orsomando, consideriamo Anima Festosa (in principio “Anima fascista”, giustamente rititolata dopo la caduta del regime): un tema solo, come per Beethoven nella sua V, che sarà riportato in tutti i movimenti, un grande ciclo melodico armonico, come in “Tristano e Isotta”.
Certo i paragoni sono un pò azzardati, ho citato dei “branoni”, ma in fondo sono dei colossi perchè noi li vogliamo tali: se l’uomo avesse detto la V è una porcata, lo sarebbe stata tranquillamente.
Non voglio andare  fuori argomento, ritorniamo all’emancipazione della marcia.
Consideriamo  A Tubo! di Abbate (il “!” è parte del titolo): le parti sono quasi tutte reali, pochi raddoppi. Addirittura un bellissimo gioco fra i I e i II clarinetti, pieno anche di dissonanze. Echi abruzzesi di Marchesiello: i corni hanno una parte diversa rispetto ai flicorni contralti, quasi sempre sono scritti sullo stesso rigo della partitura.
Se fino agli anni ’60/’70 alcuni compositori hanno allargato il discorso faber musica nelle marce, viene naturale chiedersi come mai l’evoluzione globale non è stata portata nelle marce successive. Un tentativo di risposta sta nella possibilità di poter “marciare” suonando, e dare la possibilità anche a quei, poveri, ragazzi, che a stento leggono le posizioni delle dita dello strumento (e questi sono poveri per colpa di chi ha insegnato loro solo le posizioni dello strumento, ma è un altro discorso) oppure perchè in troppi abbiamo scritto marce per riempire l’aria di onde sonore durante le feste.
Resta comunque il fatto che la marcia sinfonica deve essere per noi come il Colosseo, un monumento. Fermiamoci al Colosseo. Se pensiamo che non ne siano stati più costruiti, di colossei, allora ci sbagliamo. “San Siro” a Milano, l’ “Olimpico” a Roma, la “Favorita” a Palermo, non sono altro Colossei moderni, luoghi dove si pratica lo sport nazionale. Se prima gli anfiteatri ospitavano elefanti, tigri, gladiatori e schiavi, oggi i nostri anfiteatri ospitano calciatori che danno pedate ad un pallone. Non c’è da meravigliarsi. E’ proprio così.
Oggi sono pochi quelli che hanno continuato il lavoro dei padri della banda portando la marcia a delle evoluzioni, posso citare Salvatore Miraglia (Acireale –CT), autore di “Fuochi Etnei”, “Armonie Acesi”, ecc., dove nelle sue marce vi è un ritorno allo stile che era quello di Abbate, intriso di ritmi e talvolta armonie che vengono dal floklore siciliano; Salvatore Restivo (Campofranco- CL) che con la sua marcia “Biscia” si discosta dalla solita forma di marcia sinfonica, e predilige figurazioni non molto usate per questa composizione come sestine o settimini; Antonino Albanese (Baucina – PA) che nelle sue marce usa temi molto semplici (come faceva il suo maestro Francesco Genevose), portati però all’esasperazione attraverso una ripetizione continua, variata e modulata.
Mi scuso se non ho citato altri compositori: di sicuro ci sono numerosi artisti che hanno scritto marce degne di essere analizzate e studiate, e mi riservo di farlo successivamente.

(a cura di Giuseppe S.)