Intervista al Prof. Marino Anesa

MondoBande.it incontra l’Autore del Dizionario della Musica italiana per banda: tutti lo hanno sentito nominare, ma molti ancora non sanno chi sia e cosa faccia

Professore, ci parli un po’ di Lei: chi è Marino Anesa?
Sono nato in provincia di Bergamo e in giovane età mi sono trasferito per lavoro a Milano. Per trentacinque anni sono stato capo del personale in un grande ospedale milanese. Bergamo mi ha dato molto, anche sul piano culturale, ma a Milano ho veramente aperto gli occhi sul mondo. A Milano nessuno è un estraneo, tutti si sentono a casa. Negli anni Settanta la città era bellissima e le occasioni per coltivare i piaceri dell’intelligenza erano numerose e spesso gratuite (un regalo non di poco conto per un ragazzo di provincia con pochi denari in tasca).
Oltre al lavoro mi sono dedicato all’impegno politico-sindacale e ho continuato a interessarmi di musica. Suonavo il pianoforte e altre tastiere (quando ne avevo il tempo), ascoltavo concerti di tutti i generi (dal classico al jazz, dalla musica leggera di qualità a quella popolare) e poi ho avviato le prime ricerche musicologiche.
Ho conosciuto Roberto Leydi, che per me è stato un grande maestro e amico, e per vari anni ho studiato la narrativa e la musica popolare, girando con il mitico registratore Uher nei posti più sperduti a raccogliere dagli anziani le storie, i canti e le musiche tradizionali. Da lì sono nati i miei primi libri.
La ricerca etnomusicologica è stata una grande scuola: in questo campo occorre studiare molto per poter dire cose sensate. Ad esempio è relativamente facile fare l’analisi di una canzone popolare; molto più difficile è stabilirne l’origine, sia testuale, sia musicale. I percorsi e le continue trasformazioni della musica di tradizione orale sono veramente affascinanti.

L’approccio con il mondo bandistico come è avvenuto?
Del tutto casualmente, come spesso accade per quelle che poi diventano le passioni di una vita. In provincia di Bergamo (come nella vicina Brescia) c’è sempre stata una grande tradizione bandistica; basti pensare che nel Bergamasco oggi esistono 105 bande e nel Bresciano 126. Tuttavia non avevo mai prestato attenzione a questo fenomeno.
Nel 1985 il maestro della banda del mio paese d’origine mi ha chiesto di scrivere qualcosa per il centenario del complesso: così è nato il primo libro che ho dedicato al mondo bandistico. Ho accettato di farlo perché mi sono ricordato di un incitamento al proposito di Roberto Leydi che nel 1979 aveva pubblicato sulla rivista dell’Arci “Laboratorio Musica” un articolo intitolato Parliamo di bande. Lo scritto di Roberto iniziava così: «Credo che sia arrivato il momento di fare i conti con le bande. Di incominciare cioè a considerare in modo serio e documentato la funzione che le bande hanno assolto nel passato per la formazione del gusto musicale, per la diffusione della musica, per la creazione di modi civili e collettivi di coesione e di solidarietà. E, di conseguenza, di verificare la situazione attuale, nella prospettiva (se possibile) di una piena rifunzionalizzazione di uno strumento di comunicazione di massa che probabilmente conserva una forte potenzialità, anche se in una crisi evidente».
Questa sintesi mirabile è stata il mio “manifesto”: nell’analizzare il fenomeno banda non ho mai disgiunto gli aspetti tecnico-musicali da quelli educativi e sociali. Chi vuole veramente capire la banda deve fare così.
Mi sono messo, dunque, a “fare i conti con le bande” e non ho ancora smesso. È un campo di ricerca sterminato che offre molteplici possibilità di approccio e dà grandi soddisfazioni.

Lei ha suonato in qualche banda o suona uno strumento?
Oltre alle tastiere non ho suonato altri strumenti, ma ho imparato ad ascoltare molto i fiati, questi tubi sonori che vivono del respiro e del soffio degli esseri umani.

Come vede il sistema bandistico odierno in Italia?
Ogni tanto qualche autorevole personalità musicale lancia angosciate grida d’allarme per la salvezza delle bande che sarebbero in piena crisi. Dissento totalmente da questa visione pessimistica, che dimostra solo una notevole carenza di informazione. Nel nostro paese si notano invece da tempo confortanti segnali di crescita qualitativa dei complessi bandistici. Abbiamo numerosi complessi di assoluto livello internazionale, ma anche il livello medio delle bande dei piccoli e grandi centri è notevolmente cresciuto.
Anche il Sud e le Isole stanno abbandonando il modello, ormai ampiamente datato, delle banda da giro, e hanno da tempo avviato qualificate scuole di musica che hanno determinato la nascita di bande di pregevole qualità, guidate da maestri competenti e formate da centinaia di giovani strumentisti entusiasti.
Naturalmente, dall’Alpe alle Piramidi, c’è ancora un buon numero di bande di qualità assai modesta, ma la situazione sta migliorando.
Le comunità locali sostengono con orgoglio le loro bande. Quello che manca è una maggiore attenzione da parte delle istituzioni e delle forze politiche nazionali, che non si sono ancora rese conto del valore di questa preziosa realtà.
Da parte nostra smettiamola comunque di chiedere erogazioni finanziarie generalizzate. Dobbiamo chiedere il sostegno di progetti di studio e di lavoro e poi abituarci a dare conto dei risultati. Uscire cioè dalla logica perdente dell’assistenzialismo e rivendicare il riconoscimento della nostra funzione culturale e sociale.

C’è qualcosa che eliminerebbe o che cambierebbe della banda odierna?
Intanto precisiamo che col termine banda vengono complessivamente designate realtà assai diverse tra loro. C’è la grande banda militare, la cosiddetta orchestra di fiati, la media banda che si dedica a impegnativi programmi concertistici, la piccola banda che svolge prevalentemente i servizi civili e religiosi, la banda da giro, la banda-spettacolo con le majorette, la marching band, la fanfara, ecc.. Ognuna di queste tipologie ha un suo senso nella realtà in cui opera e ha diritto di essere considerata con rispetto.
Eliminerei un po’ di retorica paesana, che ci impedisce di guardare al di là del campanile, e anche il continuo richiamo alle gloriose tradizioni, che spesso non è altro che una scusa per non impegnarsi a fondo nei necessari cambiamenti.
Una delle cose che va decisamente cambiata è la formazione dei maestri, che in tanti casi è piuttosto improvvisata e raccogliticcia. La qualità degli strumentisti delle bande è ormai a livelli piuttosto alti e sono molti i diplomati in conservatorio che ne fanno parte. Bisogna invece investire nella formazione dei maestri direttori: in questo campo siamo piuttosto arretrati rispetto agli standard internazionali. Non basta qualche stage con Hardy Mertens o Jan van der Roost per risolvere la situazione; occorrono percorsi formativi di lunga durata.

Parliamo delle federazioni e associazioni che dovrebbero salvaguardare le bande: su cosa dovrebbero lavorare per migliorare il sistema bandistico?
Oltre alla formazione dei maestri, della quale ho appena parlato, è importante realizzare continui scambi con le realtà di altre nazioni. Non parlo, ovviamente, dei gemellaggi che hanno solo un piacevole scopo turistico, ma di scambi di iniziative culturali e di studio.
Le varie associazioni e federazioni esistenti dovrebbero riuscire a coordinarsi meglio, al fine di portare una voce univoca nei confronti del governo nazionale e di quelli regionali. In caso contrario il fronte bandistico non si presenta compatto e perde credibilità.
Sul piano semplicemente organizzativo c’è ancora molto da fare. Basti pensare che nessuno sa realmente quante siano le bande italiane. Si sparano delle cifre indicative: 3.500, 4.500. Non sarebbe doveroso censirle, suddividendole per tipologie, in modo da avere un quadro esatto della realtà?
Ricordo, per inciso, che negli anni 1871-1872 il governo italiano ha realizzato un’indagine statistica nazionale sulle scuole e istituti musicali, pubblicandone i risultati. A oltre centotrenta anni di distanza mi parrebbe giunta l’ora di aggiornarla.

Se lei potesse dare un consiglio a coloro che le amministrano, che consiglio darebbe?
I ruoli dei presidenti e dei consigli direttivi sono molto importanti per le bande, a condizione che non rimangano titoli onorifici. Il presidente ha funzioni di rappresentanza e di promozione; è un trait d’union tra la banda, la comunità che la esprime e le istituzioni. In lui i bandisti devono vedere il primo sostenitore. I consiglieri devono ripartire fra di loro le numerose cose da fare per garantire il perfetto funzionamento della scuola, dell’attività concertistica e della vita associativa.
La banda è come una piccola azienda, dove ciascuno deve svolgere un compito preciso, senza confusione di ruoli. Trovo ad esempio patetici i presidenti che vogliono indicare ai maestri i brani da eseguire nei concerti.

È una cosa positiva, secondo Lei, avere delle graduatorie dei brani, ossia la suddivisione degli stessi per categorie?
Si tratta di una pratica di indubbia utilità, ormai consolidata a livello internazionale. Gli elenchi dei brani da concorso vengono periodicamente aggiornati dagli specialisti e costituiscono uno strumento universalmente accettato.
Non basta però consultare le liste, occorre anche essere ben coscienti della categoria di appartenenza. Nelle prime edizioni dei concorsi bandistici italiani capitava spesso di sentire bande palesemente non all’altezza della categoria prescelta. Poi si sono diffusi anche da noi i concorsi di classificazione e così le bande si sono abituate a “prendersi le misure”.

Banda musicale o orchestra di fiati?
Decisamente e orgogliosamente banda. Banda è il termine che si è imposto da secoli nella nostra tradizione culturale. Ha il grande vantaggio della brevità: cinque lettere per una definizione fulminea e comprensibile a tutti. Nel tempo ha inoltre acquisito una valenza affettiva, utilizzata anche nella letteratura, nel cinema, nelle canzoni: “Quando la banda passò…”. A nessun cantautore verrebbe in mente di dire “Quando l’orchestra di fiati passò…”.
Orchestra di fiati è una definizione pretenziosa, pedante e inutilmente didascalica. È un termine che piace ai maestri di banda che frequentano gli stage internazionali e vogliono sentirsi à la page o piuttosto membri di una élite. Bisognerebbe ricordare a questi “signorini della bacchetta” che la qualità non dipende dal nome, ma dalla serietà degli intenti e dallo studio assiduo. Capita infatti troppo spesso di sentire definite orchestre di fiati le più svariate compagnie di “suonatori di ventura”, assoldati per l’occasione, che si sciolgono come neve al sole dopo avere partecipato al concorso del momento. C’è anche chi ritiene che per fare un’orchestra di fiati sia sufficiente schierare sul palco settanta strumentisti. Tutto ciò denota unicamente un penoso provincialismo.

Preferisce l’organico “symphonic band” o quello vesselliano? Vessella è stato il riformatore dell’organico in Italia. Pensa che questo organico sia da mandare in pensione?
L’organico vesselliano puro è ormai patrimonio esclusivo delle grandi bande militari centrali. In passato potevano contare su di un organico del genere quasi esclusivamente le bande delle grandi città. Le formazioni paesane avevano spesso organici incompleti e assai variabili in relazione ai mezzi finanziari e alle disponibilità di strumentisti in loco. La sua persistenza nelle grandi bande militari ha, mi si passi il termine, una funzione quasi museale. Forse è il caso di pensare a uno snellimento di questi organici, utilizzando parte degli strumentisti in altri compiti attinenti alla loro professionalità.
Oggi è indispensabile orientarsi verso l’organico della symphonic band per poter suonare il repertorio bandistico internazionale e dialogare alla pari col resto del mondo.
Ho sempre considerato “aria fritta” gli accesi dibattiti sul tipo di organico: quello che conta veramente è la qualità delle esecuzioni.

Altro dilemma che fa infiammare i forum: trascrizioni o brani originali?
Anche qui non è il caso di agitarsi in discussioni oziose. I maestri che operano scelte drastiche, in un senso o nell’altro, sbagliano grossolanamente, perché precludono agli strumentisti e al pubblico la possibilità di godere della miglior musica di ogni categoria.
Va anche detto che esistono molti brani definiti “originali” solo perché sono stati scritti per banda, ma in realtà di originale (e di musicale) hanno ben poco. D’altro canto abbiamo a disposizione eccellenti trascrizioni di lavori sinfonici o cameristici che, eseguiti dalla banda, rivelano sonorità ed effetti inaspettati. La cosa importante è offrire buona musica che interessi chi la suona ed emozioni il pubblico.

Secondo Lei Gustav Holst è stato un genio che ha posto una pietra miliare? Oppure un buon compositore ritenuto minore dalla musicologia e che ha dovuto anche lavorare con le bande?
Sono numerosi i grandi compositori che si sono dedicati anche al mondo bandistico. Per fare un esempio vicino alla nostra realtà, basta citare il caso di Amilcare Ponchielli che ha lasciato un gran numero di composizioni per banda, ancora poco conosciute.
L’interesse che i musicisti famosi hanno dimostrato verso le bande e gli strumenti a fiato ha dato un notevole contributo al repertorio originale, che altrimenti sarebbe rimasto fermo alle marce, ai ballabili e alle fantasie descrittive.

In ogni libro che tratta l’argomento banda si può leggere l’etimologia della parola, e spesso la parola banda la si fa avere origine da Bandwa, ossia drappo, bandiera, cioè il marchio di un luogo. Secondo Lei, il marchio che distingue la banda italiana qual’ è? Ha una sua identità o è ancora alla ricerca di un proprio essere?
A mio parere sono due i valori fondamentali della tradizione bandistica italiana. Il primo è il profondo radicamento in ogni comunità, anche la più piccola e sperduta. Il secondo è la straordinaria funzione educativa che le bande hanno svolto da secoli, supplendo con entusiasmo e in modo assai efficace alle carenze dell’istruzione pubblica in ambito musicale.

Secondo Lei, un concerto di una banda dovrebbe essere eseguito all’aperto o in teatro?
Entrambi, ovviamente. Si tratta poi di adattare ad ogni situazione i programmi adeguati. È chiaro che i programmi più raffinati e impegnativi danno il meglio si sé in teatro. Trovo però giusto anche sfruttare la suggestione, anch’essa teatrale, degli spazi aperti. Studiando opportunamente l’acustica, la collocazione della banda in una piazza adatta può determinare risultati musicali molto buoni.

Ha un brano che Le piace in modo particolare?
Non amo fare graduatorie in campo musicale. In ogni epoca e in ogni nazione c’è una grande varietà di forme e di stili che rende difficile stilare delle classifiche. Meglio abbandonarsi al piacere dell’ascolto consapevole. In genere prediligo le piccole forme. Tanto per fare un nome, sono un fan di Percy Grainger, forse perché la maggior parte dei suoi brani trae ispirazione dalla musica popolare. Grainger è un musicista di grande finezza e mi dispiace molto sentire, ad esempio, Irish Tune from County Derry, uno dei suoi brani più delicati, strapazzato da maestri dilettanti privi di sensibilità.
Poi ascolto con gioia la Suite Française di Milhaud, la Sinfonia in Sib di Hindemith, la English Folk Song Suite di Vaughan Williams, i brani di Vaclav Nelhybel, John Barnes Chance, Clare Grundman, Vincent Persichetti e via deliziando.
Al mio funerale (a suo tempo e con rispetto parlando) mi piacerebbe che una banda intonata suonasse la Marcia funebre in memoria di Rikard Nordraak di Edvard Grieg. È un brano molto toccante e coinvolgente, di quelli che “entrano nelle vvene”. Grieg, che all’epoca della composizione si trovava in Italia, l’ha scritto di getto dopo che gli era giunta la notizia della morte dell’amico folclorista Nordraak.

Parliamo di uno dei più grandi lavori mai scritti per banda in Italia: come nasce l’idea del “Dizionario della Musica italiana per banda” di Marino Anesa?
Quando ho iniziato a occuparmi di bande mi sono subito accorto che nei dizionari musicali italiani i compositori di musica per banda erano quasi totalmente assenti. Il dizionario di Alberto De Angelis è l’unico, tra quelli più noti, che dedica qualche attenzione al nostro settore. Nel Deumm potete trovare Adriano Celentano, ma invano cerchereste Giovanni Orsomando, Mariano Bartolucci, Giuseppe Filippa. Nelle presentazioni dei concerti nessuno dava notizie dei compositori italiani di musica originale per banda, semplicemente perché non c’era materiale biografico disponibile.
Ho voluto creare uno strumento che colmasse questa lacuna e mettesse a disposizione dei musicisti e degli studiosi le informazioni essenziali sulla vita e le opere di questi musicisti, dall’inizio dell’Ottocento ai giorni nostri. Oltre alla biografia, per ciascun autore viene indicato l’elenco delle composizioni bandistiche reperite, con indicazione dei dati di stampa e degli archivi e biblioteche dove sono conservati i manoscritti.
La mia intenzione è stata anche quella di rivalutare il patrimonio bandistico italiano, non molto conosciuto (né suonato) al di là dei soliti nomi.
Ho impiegato tredici anni per compilare i due volumi del dizionario. Ho fatto tutto da solo, con orgoglio e ostinazione, un po’ come gli scalatori solitari che afrrontano le vette di ottomila metri.

Lei ha collaborato con Roberto Leydi e ha avuto grande stima per Diego Carpitella. Quanto c’è di etnomusicologia nei suoi lavori?
La principale lezione che mi è venuta dal lavoro etnomusicologico è quella di una grande apertura verso i fenomeni musicali, al di fuori di ogni schematismo. La banda, per sua natura, è terreno di confine fra colto e popolare, per cui non va studiata coi metodi e i parametri della musicologia classica. È molto più complessa e, in un certo senso, ambigua, una musica “di strada”, che raccoglie una molteplicità di influssi e di sapori.

Perché la banda non ha un ruolo importante nella musicologia italiana?
Non è colpa della banda, ovviamente, ma della musicologia, o meglio dei musicologi che da sempre si sono disinteressati della banda, considerandola un sottoprodotto indegno di attenzione. In realtà, non avendola mai studiata, non ne sanno alcunché e quando vengono casualmente interpellati sull’argomento non fanno altro che ripetere triti luoghi comuni.
Va detto però che anche molti etnomusicologi hanno guardato la banda con sospetto, tenendola a distanza per evitare la contaminazione della genuina musica popolare.
Invece è di grande interesse il ruolo storico svolto dalla banda nella mediazione fra culture diverse, diffondendo di volta in volta i generi musicali colti e subcolti (primi fra tutti l’opera lirica e l’operetta, ma anche le melodie celebri di grandi compositori, le romanze, i ballabili “moderni”, la musica leggera) e ad assorbire aspetti della musica etnica e prodotti pseudofolkloristici.
Ignorare la nostra grande tradizione bandistica significa trascurare un capitolo importante della vita musicale italiana e precludersi diverse possibilità di comprenderne a fondo percorsi e dinamiche.

In ogni dove, quando si parla di banda, si pensa a quella formazione che si diverte e che fa divertire le piazze. Lei la preferisce così o con indosso un abito scuro e con un carattere serioso?
Oltre che nel repertorio, l’ambivalenza della banda si è venuta accentuando anche nelle occasioni esecutive: da una parte il momento concertistico (in piazza o, sempre più spesso, in teatri e auditorium), dall’altra le feste, le celebrazioni e le sfilate con la partecipazione ai più significativi momenti della ritualità collettiva.
Sono importanti entrambi: sia le esecuzioni raffinate da ascoltare in silenzio e in ambienti raccolti, sia la “musica viaggiante” che porta le emozioni in mezzo alla gente.

Se ci fossero più persone come Lei, che si occupano di ricerca musicale bandistica, pensa che la banda avrebbe da guadagnarci?
Il mondo bandistico è un campo di ricerca appassionante e sterminato, che può essere avvicinato da molti punti di vista. Sarebbe importante che venisse studiato con più attenzione e con maggiore costanza. Non c’è il rischio di annoiarsi e si possono ricavare grandi soddisfazioni.

Un suo pensiero a conclusione di questa intervista.
Dobbiamo essere grati alle bande per quello che hanno fatto per l’educazione di larghe fasce di popolazione che diversamente sarebbero rimaste escluse dal piacere di fare e ascoltare musica.
Il ruolo musicale, educativo e sociale della banda mantiene intatto il suo valore anche oggi. Occorre però che maestri e strumentisti restino sempre consapevoli della loro nobile funzione e mantengano l’entusiasmo necessario per non cadere nella routine.

Siamo giunti al termine di questa piacevole intervista: a nome di tutto lo Staff ringrazio il Prof. Marino Anesa per la sua disponibilità, e speriamo di poterLa avere ancora nostro ospite.
Ringrazio anche io il sito MondoBande.it per l’ospitalità, e mi auguro che questo sito possa continuare a crescere dando ulteriori contributi al mondo bandistico italiano.

(a cura di Giuseppe S.)