First Suite di Holst: capolavoro assoluto?

Alessio Stabile, direttore di banda toscano, propone una sua personale interpretazione della nota partitura

Affrontare una problematica così complessa senza apparire presuntuoso non è cosa semplice, ma tenterò, con l’umiltà di un servo, ad illustrare quello che è il mio pensiero.
Cominciamo con il chiederci cosa distingue il capolavoro da un ottimo lavoro: verosimilmente, potrebbe essere la particolarietà di chi materialmente lo crea?
Se prendiamo per buona, genericamente, la definizione che vuole il capolavoro un lavoro, naturalmente di elevata fattura, realizzato però da persone non comuni, allora Holst potrebbe di fatto già rientrare in questa categoria.
C’è però un altro aspetto su cui vorrei soffermarmi un attimo: testo e immagini. Prendiamo ad esempio “Volare”, che è uno dei motivi più conosciuti al mondo (forse la cantano anche in Guatemala), e una delle tante colonne sonore di Morricone.
Tralasciando per ovvi motivi le pecularietà di divulgazione (sono solo dei meri casi pratici) che gli esempi presi portano con sè, ci accorgiamo che, pur essendo i realizzatori delle opere citate delle persone non comuni, la comparazione di merito con la Suite in esame è impari.
Questo, non a causa del valore intrinseco dell’opera, ma per il suo significato estrinseco: “Volare” è, dal punto di vista strettamente musicale, molto semplice, ma fa presa, grazie al testo, sul desiderio innato dell’uomo, appunto quello di volare; le colonne sonore di Morricone, oltre che musicalmente più complesse, hanno dalla loro il vantaggio delle immagini, e il conseguente phatos emozionale.
E Holst? Ecco, lui, in questo caso, sta affrontando un incontro di pugilato con una mano legata alla cintura!
Il mio lavoro di direttore comincia proprio da qui, con il tentativo di slegare quella mano; non solo ad Holst, ma a tutti quei compositori che non hanno il vantaggio del testo e dell’immagine, valorizzando quello che è il significato estrinseco di ogni opera.
In questo specifico caso poi, la sfida è ancora più intrigante, perchè la musica non è nemmeno di quelle cosiddette “descrittive” (tipo la Fantastica di Berlioz, per intenderci) in cui l’immaginazione gioca a carte scoperte: qui è tutto da scoprire.

Apriamo il manoscritto: la partitura è ben scritta e ordinata, ma ci sono ben 13 ad libitum (ovvero, il 50% dell’organico strumentale), che mi pongono subito un interrogativo: aveva un’idea precisa di ciò che voleva, oppure no?
Io credo proprio di no, e al contrario penso che l’idea gli sia maturata man mano, perchè nell’Intermezzo ci sono alcuni strumenti che sono diventati obbligati, come il 2° Cl. Piccolo e il Baritone Bb; il che potrebbe avvalorare la mia (si fa per dire) tesi, che affianca la composizione alla creazione. Nella creazione, la composizione vive di vita propria, ed è quella che ricerco: il compositore diventa un mezzo, e non il fine, dell’interpretazione (bella questa! m’è venuta così!).

Adesso analizziamo la struttura formale.
I Tempo: Ciaccona
E’ relativamente semplice. Il tema è ben individuabile anche passando da una sezione all’altra: e allora è un “tema con variazioni” o “più variazioni su tema”? Qualche maligno potrebbe asserire che tutto ciò è perfettamente uguale, e queste non sono altro che “elucubrazioni” mentali, ma non la vedo così: la musica è piena di andanti con moto e allegri non troppo, e noi dobbiamo necessariamente scoprirne la differenza.
Io ho optato per “più variazioni su tema”, e ne spiego i motivi: l’esposizione del tema è composto da due semifrasi, rispettivamente di 8 e 6 note, e le variazioni di tutta la ciaccona sono proprio 8 + 6. Se ad ogni nota sottoscrivo la dinamica della variazione, ho anche una sorta di interpretazione del tema, che naturalmente mantengo per tutta la durata del movimento, indipendentemente dalla dinamica della variazione presentata: due anime distinte all’interno della stessa composizione, dovreste sentire (quando gli strumentisti lo assimilano, naturalmente) che bello!

II Tempo: Intermezzo
Il primo spunto di riflessione è il tempo, vivace. Inteso come beet metronomico o come carattere? Un carattere vivace nella relativa minore della tonalità di impianto non calza benissimo, ma anche un beet troppo vivace rischia di non legare con il tempo di marcia “inglese”, tradizionalmente un pò più lento del cosiddetto 120 Italiano del III movimento. E allora?
E allora non si può rispondere a tutto, ma sappiamo cosa sicuramente non possiamo fare. Premesso che Holst vuole necessariamente un’esecuzione dei tre movimenti senza interruzioni, dobbiamo pertanto legare e ben distinguere lo stacco del tempo tra il II movimento e il III, e il nostro vivace non può superare, quindi, il 160 di semiminima.
Per sottolineare ancora di più il contrasto della Marcia, approfitto del tamburine che Holst usa in maniera diversa nella riproposta del tema prima del finale, in maggiore, per rubare un pò il tempo. Sulla base che ciò che rubi va restituito, e che il morendo dinamicamente non risulta così efficace, rilascio il tempo rubato proprio in queste battute, ottenendo così un doppio vantaggio: un morendo più efficace, e uno stacco di marcia più marcato.
Parlando del tema, sottolineo la cellula (croma, croma, semiminima), che risulta peraltro già accentata dall’autore, rispetto al resto della frase, con un leggero crescendo sul finale delle semifrasi. Lo sviluppo centrale è molto cantabile: ogni parte viene trattata come una parte solistica, con microdinamiche personalizzate che creano una sorta di tensione, sino alla ripresa, che trova giusta risoluzione nel finale.

III Tempo: Marcia
La mia attenzione è ricaduta subito sul diminuendo del levare del tema. Istintivamente lo facciamo ogni volta che si ripresenta il levare; ma in partitura non c’è, non c’è nella riproposta dei legni, e non c’è nemmeno nel tutti finale. Credo sia corretto interpretare quel segno più come un “Attenzione: la dinamica cambia in battere!” che un vero e proprio diminuendo sulla nota.
E per finire, il tema centrale legato, senza vibrato, “morto”, con il fiato che spinge in avanti, inesorabilmente, senza interruzioni.
I due tamburi finali chiudono con marzialità tutto il movimento; il meno mosso ormai rallenta, quasi per tradizione, sino a fermarsi. Ma se lo pensiamo veramente “meno mosso”, vedrete che quel rallentando sparisce, rendendo forse più obbiettiva la lettura, ed evitando altresì quella corona prima del finale.

Questa è la mia lettura, e sinceramente vi dico che non so se questa Suite sia un “capolavoro assoluto” oppure no; non credo che spetti a me dare giudizi o peggio ancora sentenze.
Questo diritto/dovere spetta al pubblico, è lui e solo lui che valuta e promuove.
Nel mondo dell’arte, e della Musica, si chiama collaborazione: ed è a questo che dobbiamo mirare.

(a cura di Alessio S.)