“Tre scemi (in) fa” – Un racconto di Andrea Vitali

SAN CARLO CANAVESE (TO) – Il 9 Ottobre l’autore presenterà il suo libro “Almeno il cappello” edito da Garzanti. Per l’occasione, un gradito regalo per gli Utenti di MondoBande.it

Andrea Vitali, autore amato da oltre un milione di lettori, presenterà “Almeno il cappello” (finalista Premio Strega, Premio Campiello Selezione della Giuria dei Letterati, Premio Procida – Elsa Morante – Isola di Arturo, Premio Casanova – qui la nostra recensione) a San Carlo Canavese il 9 ottobre prossimo, accompagnato dal gruppo de “I Sulutumana” (per dettagli: www.ifilarmonicidisancarlo.it).
Per l’occasione regala ai Filarmonici di San Carlo Canavese (cui il libro è dedicato, assieme al Corpo Musicale di Bellano e a Ercole Nogara) e a Mondobande.it questo esilarante racconto sul mondo bandistico.


 

TRE SCEMI (in) FA

Andrea Vitali

Negli anni sessanta per me, per noi anzi, visto che poi saremo in tre nel corso della storia, non era molto semplice staccare in famiglia il biglietto per uscire alla sera.
Abitavamo in periferia, occorre precisare. Occorre precisare anche un’altra cosa: abitavamo in un paese. La precisazione è d’obbligo perché quando si parla di periferia il pensiero corre spontaneo alle città. Invece anche i paesi ce l’hanno una periferia e chi l’abitava, e l’abita, era penalizzato dalla distanza rispetto al centro dove la vita, all’oratorio perlopiù o negli spazi dove di tanto andavano a parcheggiare gli autoscontri, si animava.
Per i miei coetanei che abitavano in centro, i nostri coetanei anzi, vivere la vita serale del paese era molto semplice: uscivano di casa ma era come se fossero sempre sottomano, a portata di voce. Per me invece, per noi, le uscite dovevano essere garantite. Ci voleva l’occasione però, da cogliere al volo e quando arrivò ci sembrò essere quella giusta.
Era successo che il corpo musicale aveva bisogno di forze nuove, in paese erano affissi manifesti che chiamavano all’appello aspiranti musicisti, un avviso era stato diramato anche nelle scuole: delle rispettive propensioni alla musica nessuno di noi tre sapeva niente. Ad attirarci era il fatto che le lezioni fossero bisettimanali e soprattutto serali. L’idea di questo terzetto coalizzato e proteso verso la scoperta del mondo delle sette note ebbe un impatto favorevole nelle orecchie di madri e padri: non che il permesso di uscita, il sospirato ” sì ” venne concesso immediatamente. Intercorsero dapprima telefonate e scambi di veduta da una famiglia all’altra e solo dopo qualche giorno dalla richiesta, mentre noi tre vivevamo in un clima di palpabile attesa, il sospirato verdetto, positivo, venne emesso a patto che:

  1. il primo del terzetto, cioè io, passasse a chiamare gli altri due in modo da affrontare l’avventuroso viaggio verso il centro del paese in formazione compatta
  2. non facessimo deviazione alcuna tenendo presente che se ci fossimo concessi distrazioni di sorta non sarebbe mancato un ruffiano delatore, ce n’erano tanti in quegli anni !, e la nostra scuola si sarebbe immediatamente interrotta
  3. si tornasse a casa nella medesima formazione di partenza, esercitando non solo un controllo incrociato l’uno verso l’altro: l’errore di uno solo sarebbe stato pagato da tutti.

La prima sera di lezione fu emozionante. I grandi, già abili musicanti, che ci guardavano con curiosità, l’odore di stoffa e sudore che impregnava l’aria del locale, i leggii orfani di partiture e le parole del maestro soprattutto! Furono parole di saluto dapprima. Poi parole con le quali ci illustrò una sorta di decalogo del musicista: ci volevano passione e spirito di sacrificio. Al termine del suo intervento il maestro rivolse a noi neofiti un primo invito, ci assegnò un compito preciso: ci concedeva una settimana di tempo per riflettere su ciò che aveva detto e soprattutto pensare a quale strumento avremmo voluto suonare. Era indispensabile saperlo per orientare lo studio teorico.
Non immaginavamo che a breve avremmo perduto il primo pezzo della nostra coalizione: il primo scemo stava per finire, senza nemmeno averla cominciata, la sua carriera di musicista.
Di lì a sette giorni, a sette sere, eravamo di nuovo lì, davanti al maestro che, dopo i saluti, ci interrogò uno per uno e in ordine alfabetico circa le preferenze per lo strumento. Vennero dichiarati un discreto numero di cornette, clarini, un bombardino, una grancassa. Arrivato al primo di noi tre, quello con sicurezza, sparò:
« La chitarra »!
Un subitaneo rossore invase il viso del maestro a dimostrare che sotto la calma esibita bolliva un caratterino facile a prendere fuoco.
Controllandosi il maestro riassunse per sommi capi e a beneficio del nostro amico i concetti che aveva illustrato la settimana precedente: vi erano strumenti che in una banda di paese non potevano avere posto!
Quindi, dopo aver concesso al nostro qualche minuto per riflettere, ripeté la domanda. Seguì un minuto di silenzio. Un minuto nel corso del quale il nostro amico, accennando di sì col capo, dimostrò di aver capito. Invece non aveva capito una mazza. Finalmente rispondendo, disse:
« La batteria »!
E il viso del maestro si infiammò. Poi, guardando il socio come se volesse incenerirlo, levò il braccio, puntò l’indice ed esplose.
« Fuori »!, ordinò.
Il nostro socio scattò sulla sedia, pronto a uscire. Io e l’altro invece ci guardammo: se quello se ne andava dovevamo farlo anche noi, gli ordini erano chiari, non si discutevano. Il maestro seguì quel triplice movimento. Con lo sguardo poi interrogò proprio me. Arrossendo, di vergogna però, non di stizza, esposi le ragioni del nostro sodalizio. Il maestro le ascoltò con attenzione: davanti al dettato dei genitori non osò obiezioni. Si augurò, però, che sia io che l’altro potessimo ritornare la settimana seguente al fine di chiudere con l’assegnazione degli strumenti e dare il via alla scuola vera e propria.
Stabilimmo di non dire niente in famiglia, non volevamo correre rischi. Tutto sommato potevamo continuare a uscire in quella formazione a tre. E mentre in due andavano a scuola di musica, il terzo avrebbe goduto di un paio di invidiabili ore da trascorrere immerso nei misteri del paese: a patto, naturalmente, che alle dieci e trenta spaccate si ripresentasse per compiere il ritorno in formazione. Delle conseguenze non ci preoccupammo, non ci pensammo neppure. Così la settimana successiva sperimentammo allegramente quanto fosse facile la vita dei furbi e mentre io e l’altro raggiungevamo la scuola il terzo, fischiettando, partì verso avventure notturne.
Il maestro ci accolse con un bel sorriso e, subito dopo, una brutta sorpresa. Gli è che la settimana precedente, noi assenti, lui aveva continuato con l’assegnazione degli strumenti così che adesso non ne restavano che due, un genis e un trombone. Rispettando l’ordine alfabetico chiese prima al mio amico e quello si gettò a pesce sul genis, forse pensando che fosse uno strumento solista, lasciando la scelta obbligata del trombone di cui il solo nome mi metteva tristezza. Poco dopo risollevai un po’ il morale: fu quando il maestro spiegò che anche il genis era strumento d’accompagnamento e sul viso del mio amico si stese un velo di delusione.
Se io e il mio socio pensavamo di poter uscire quella stessa sera con lo strumento in mano, ci toccò disilluderci repentinamente. La scuola era innanzitutto teorica, e non poteva essere diversamente: solfeggio soprattutto, per settimane e settimane mentre, avanzando l’inverno, il terzo di noi apprezzava sempre meno quelle uscite serali che lo esponevano al freddo e a un girellare per le contrade del paese deserte e a volte inquietanti. Nel periodo più fondo di quell’inverno il terzo socio si inventò mali di testa, mali di pancia, compiti e lezioni da ripassare che gli consentirono, in deroga agli accordi, di restare a casa. Mentre io e l’altro invece procedevamo verso il momento in cui lo strumento, quello vero, ci sarebbe stato assegnato.
Avvenne una sera di fine febbraio, nevicchiava. Nella scuola di musica c’era un’aria mistica, come se fossimo in presenza di una cerimonia di iniziazione. Gli strumenti, lustri, ci vennero consegnati uno ad uno. Sia io che il mio socio guardammo con un po’ di rimpianto cornette e clarini che finivano nelle mani altrui. Tuttavia quando avemmo tra le mani il nostro lo ammirammo con soddisfazione: finalmente avremmo cominciato a suonare. Per un paio di mesi lo facemmo lì, tra i muri della scuola, sotto la guida del maestro e dei musicanti anziani. Poi, una volta acquisita un poco di pratica, avremmo potuto portarcelo a casa, onde esercitarci quotidianamente e convenientemente prepararci all’esordio in pubblico.
Col terzo la faccenda dello strumento a domicilio venne risolta col raccontare in casa che, essendogli capitata in sorte la grancassa, strumento ingombrante e soprattutto malagevole da portare avanti e indietro, era esentato dagli esercizi quotidiani.
Quelle esercitazioni quotidiane furono per me una scuola di vita. Solo, chiuso nella mia stanza o a volte con la compagnia, d’ordine!, di una mia sorella che pietosamente assisteva, io mi illusi che avrei potuto essere musicista. Le mie partiture erano tutt’altro che complicate, poche note, sempre quelle, note d’accompagnamento che soffiavo nel bocchino illudendomi di generare chissà che melodie. Non erano altro, invece, che un monotono ripetersi. Che in ogni caso, monotono o no che fosse, doveva comunque andare d’accordo con gli altri della banda. In me invece c’era qualcosa che le mandava fuori registro. Me ne avvidi la sera in cui, per la prima volta, provammo una marcetta tutti assieme: andavo fuori tempo, non coglievo i messaggi della bacchetta del maestro, non sentivo gli altri. Non solo io. Anche il mio socio del genis dimostrava di avere qualche problema con l’armonia del gruppo: mentre io restavo avulso dall’insieme e sparavo note a caso, lui aveva invece un suo ritmo, personale però, che lo faceva sempre arrivare un po’ dopo, così che quando il resto della banda concludeva in crescendo, lui chiudeva sparando delle solitarie scorreggette.
Per un mese il maestro tollerò, abbuonandoci gli errori con la scusa dell’emozione e dell’ansia per il debutto, previsto alla processione del Corpus Domini. Però, passati aprile e maggio, e notando che il nostro sentire musicale latitava, a un certo punto ci mise sull’avviso: era ora di fare le cose per bene, sennò, suo malgrado avrebbe dovuto rinviare il momento della nostra esibizione pubblica.
Fu così, sentendo quelle parole, che a me venne un’idea e la comunicai al socio: se volevamo perderci il glorioso momento dell’esordio in banda, eravamo sulla strada giusta. Dalla nostra però c’era una fortuna, quella di non essere soli, e solisti, capitati piuttosto nelle retrovie dell’accompagnamento e in buona compagnia. Il mio socio non comprese, dovetti parlare chiaro. Per imparare c’era sempre tempo, per intanto potevamo fingere! Gonfiare le gote, schiacciare i tasti ma senza emettere suoni: nessuno se ne sarebbe accorto, l’esibizione della banda non ne avrebbe patito e noi non avremmo perduto il treno dell’esordio.
Lo sconsiderato senso d’orgoglio che lo pervadeva fece sì che il mio socio rispondesse no alla mia proposta, di getto. Non stetti a insistere, era una testa dura, di periferia: lo lasciai nel suo brodo mentre io, sin dalla prova successiva, applicai il mio rimedio all’assenza di sensibilità musicale: mi gonfiavo in viso, pestavo sui tasti, giravo le pagine dello spartito ma dalla bocca del mio trombone non usciva una sola nota. Il mio socio invece continuava con gli errori di una tempistica sempre in ritardo: chiudeva i pezzi con quella scorreggetta finale cui il maestro rispondeva con l’infuocarsi del viso e poche parole di minaccia. Fino alla sera in cui, a un mese dal Corpus Domini, emise la sentenza: gli dava un’ultima, postrema occasione. Se nell’arco di quel mese non si fosse emendato dagli errori l’avrebbe escluso dalla formazione.
Di fronte all’irreparabile il mio socio si arrese e trascorse l’ultimo mese di prove in un silenzio musicale, ricevendo così i complimenti del maestro e il viatico per prendere parte, quale musicista, alla processione.
Era una giornata di sole, calda, di molto popolo sia nella coda della processione sia ai lati della strada. Agli inni religiosi, cantati con voce estatica in chiesa, si sostituirono, fuori, le note della banda. Compimmo l’intiero giro del paese bardato a festa, rientrammo in chiesa, assistemmo alla fine della funzione. Non una nota era uscita dal mio trombone e nemmeno dal genis del mio socio. Fu dopo, in piazza della chiesa, che successe la disgrazia. Il maestro invitò i suoi musicisti a restare uniti per offrire ai fedeli che uscivano dalla funzione un’allegra mazurchetta, a mo’ di saluto. Nessun problema, sennonché in prima fila, le orecchie tese nell’ascolto, si piazzarono i genitori del mio socio. Che, evidentemente solleticato nell’orgoglio e nella vanità, decise di suonare davvero. Filò quasi tutto liscio finché durò la marcetta nonostante al mio orecchio giungessero le sue note zoppe. Quando però la banda attaccò il gran finale, quel parapapapapapà! che chiudeva la mazurca lui, in ritardo come suo solito, sparò ad occhi chiusi un potentissimo do, una scorreggia di rara potenza che spaventò i piccioni della piazza e scatenò l’ilarità dei presenti, slatentizzando nel maestro i meccanismi dell’isteria: lasciò sbollire le risate, il maestro, e poi, impettito e con un mezzo passo dell’oca, raggiunse il mio socio e gli sequestrò lo strumento, decretando di fatto la fine della sua carriera di musicista.
E la mia, in effetti.
In realtà durai ancora qualche mese ma poi l’asfissia della finzione ebbe ragione delle mia ambizioni di musicista. Fingere era stato bello per un po’ ma infine aveva perso smalto. E poi ero ormai senza compagnia, andare e venire così, solo soletto, non aveva senso. Quando, a fine estate, riconsegnai lo strumento e diedi le dimissioni, avrei voluto dire al maestro che la mia era una perdita di nessun conto, anzi, forse era un guadagno. Invece tacqui perché in fondo mi dispiaceva non essere nato musicante.
La storia potrebbe finire qui ma non sarebbe completa se non si chiarisse il destino del terzo. Già, perché il terzo aveva mantenuto viva la finzione sino alla fine: il che vuol dire che, mentendo anche la domenica della processione, era uscito con noi e, arrivato alla porta della scuola di musica, ci aveva salutato uscendosene drammaticamente col dire che se ne sarebbe scappato di casa. Non aveva alternative, i suoi, fedeli praticanti, ne avrebbero notata immediatamente l’assenza tra le file della banda e lui non immaginava come potersi cavare dall’impiccio se non con lo sparire per sempre.
Fu facile profeta poiché suo padre, prima ancora che la funzione iniziasse, si avvide della sua assenza: alla grancassa infatti c’era un tipo piccolo, baffuto e dal viso temporalesco. Quindi si avviò alla volta del maestro per chiedere conto della cosa e il maestro, disorientato, non poté fare altro che declinare la verità. Nel frattempo il nostro stava cercando di capire, nascosto tra gli alberi dei giardini a lago, come si potesse concretizzare una fuga da casa, dove potesse andare, con quali mezzi sostenersi e altre domande astrali di peso analogo. Forse si rispose che i tempi non erano ancora maturi per un’azione del genere e credo che gradì quando, a testa bassa andò incontro ai genitori che ancora trafiggevano la piazza della chiesa alla sua ricerca, gradì, dicevo, il calcio in culo che gli mollò suo padre non prima di avergli detto:
« E adesso a casa »!
Non so invece se lo stesso gradimento ebbero gli anni di collegio, tre per l’esattezza, che si beccò. Così però aveva deciso il consiglio di famiglia, affinché si pentisse di ciò che aveva fatto e poi si redimesse.