Circus Maximus: una storia e una scommessa

La prima esecuzione in Italia, a Morbegno (SO), in occasione del Ventennale dell’Orchestra di Fiati della Valtellina, il 26 Marzo: Lorenzo Della Fonte ci racconta questa straordinaria opera di John Corigliano

Il 27 febbraio 2005 era una domenica, una serena e luminosa domenica di fine inverno come solo New York sa dare, con i vetri dei grattacieli che riflettono la luce dall’alto, e la fanno sembrare proveniente da ogni direzione.
Mi dirigevo verso la Carnegie Hall, dove nel pomeriggio sarebbe stata presentata la prima della 3a Sinfonia per orchestra di fiati di John Corigliano, compositore americano tra i più acclamati e riconosciuti, certamente, insieme al grande poeta del minimalismo John Adams, il più famoso.

Corigliano, dall’inconfondibile nome italiano, è nato nel 1938, e i suoi genitori sono John senior, celebrato primo violino della New York Philharmonic per 23 anni (sotto Leonard Bernstein: se vi capita di guardare video della NY Phil con il grande Lennie, lo vedrete alla sua sinistra), e Rose Buzen, pianista.
Ha studiato con insegnanti come Vittorio Giannini e Paul Creston, e si è fatto conoscere come compositore di grande talento, ottenendo un premio Pulitzer nel 2001 per la sua 2a Sinfonia, e un Oscar per la colonna sonora de Il Violino Rosso (1999). Insegna alla Juilliard School of Music di New York, dove vive, e si sapeva in anticipo che sarebbe stato presente alla performance di Circus Maximus.

L’opera è stata commissionata, come spesso accade, da un pool di Università americane che si sono divise le spese, e si sapeva che non era stato facile convincere Corigliano a scrivere per banda. Lui stesso affermava che l’organico fiatistico non gli era molto familiare (con tutti i suoi diversi strumenti, e relative trasposizioni), ma io credo che, in fondo, una parte della sua resistenza fosse dovuta al fatto che un autore di così grande livello, abituato a comporre per la New York o la Chicago Philharmonic, la Boston o la Los Angeles Symphony Orchestra, temesse che la “banda” non potesse offrirgli un’adeguata e paragonabile qualità musicale.
Timore molto duro a morire, anche oggi, anche qui.

C’era molta attesa per questo evento, e tutti i più grandi nomi del mondo delle orchestre di fiati erano presenti. Io mi trovai ad entrare, discorrendo con loro, con Michael Daugherty, Eugene Corporon, Felix Hauswirth, ma non mi dilungo oltre ad elencare i nomi dei presenti.
Sul programma di sala stava scritto in grande: “Attenzione: si avvisa che la 3a Sinfonia di Corigliano terminerà con un colpo di fucile. Si prega di non spaventarsi.” Cominciamo bene – pensai.

E in effetti l’inizio fu pari alle attese: 11 trombettisti, disposti in cerchio sul primo anello della galleria, iniziarono un primitivo richiamo al quale rispondevano, alternativamente, dei percussionisti in sala o quelli sul palcoscenico. Una grandiosa e scatenata architettura sonora che, dal mio posto fortunatamente proprio al centro della platea, mi faceva davvero sembrare di essere al Circo Massimo, ai tempi della Roma antica, quando la musica con strumenti a fiato nacque. Subito pensai a strumenti passati, come tuba, lituus, cornu, bucina, ovvero i predecessori degli odierni ottoni. E capii come Corigliano aveva voluto collegare un brano nuovissimo alle origini del mondo fiatistico, per chiudere un cerchio e anche dimostrare come la musica per banda fosse, in effetti, la più antica.

Corigliano, nella sua presentazione, scrive: “I paralleli tra l’acuta decadenza di Roma e i nostri tempi presenti, sono ovvi. L’intrattenimento domina la realtà, e sempre più estremi “reality shows” dominano il nostro intrattenimento. Molti di noi sono diventati come confusi dalla violenza e dall’umiliazione che invade gli oltre 500 canali dei nostri schermi televisivi, così come le folle della Roma imperiale, che consideravano degli esseri umani dati in pasto ai leoni solamente come un altro show della domenica. La forma del mio Circus Maximus è stata costruita per incarnare e commentare questa enorme e affascinante barbarie.”
E così si chiude anche il cerchio della decadenza del nostro mondo globale: se davvero siamo tornati alla barbarie di quegli spettacoli, da una parte dobbiamo prenderne atto ed inorridire, dall’altra non ci resta che sperare che il punto più basso sia stato toccato, e possiamo solo risalire.

Ma torniamo a New York: dopo lo shock del primo movimento, nel secondo un quartetto di saxofoni più un contrabbasso (cosa di meglio per rappresentare il jazz, la cultura afro-americana del Novecento?) sbucò da un altro punto della galleria. Le note suadenti ed eteree da essi interpretate (e rimandate in eco da altri solisti) evocavano fantastiche creature mitologiche, come le Sirene, oppure i nostri schermi televisivi sempre accesi, effusi di luce azzurrina? L’ambiguità nell’interpretazione mi sembrò assai interessante, come del resto il momento di quiete dopo l’inondazione sonora del primo movimento, improvvisamente interrotto dall’incipit del terzo.

Qui fummo trasportati nel mondo incantato ed incantatore della televisione: non c’era il tempo di catturare una melodia che già un’altra (ah, lo zapping!) incombeva e ci faceva dimenticare la precedente. Ancora Corigliano scrive: “Il nostro bisogno per un costante cambiamento fa eco ai desideri della folla antica, soltanto che oggi noi possiamo accedere a tutto al tocco di un pulsante.” Persino una banda distante venne ad aggiungersi al rutilante magma sonoro.

Ma anche questo momento quasi schizofrenico terminò con una sfrenata discesa cromatica di tutti gli strumenti, e lasciò il posto ai suoni e rumori notturni della natura, in contrasto con quanto ascoltato in precedenza. “Lontano dalle città, la foresta suona un tempo sospeso. Gli animali si mandano richiami.” Lontano dalle città: in Valtellina conosciamo ancora suoni e rumori della natura, per fortuna, e certamente per un abitante di New York questi possono apparire lontani e, forse, minacciosi (i lupi imitati dai corni). Ma sembrava quasi di comprendere quanto i danni inflitti all’umanità dall’uomo stesso, siano molto maggiori di quelli inflitti dalla natura.

Naturalmente non poteva interrompersi la sequenza dei contrasti: e subito fummo ritrasportati in città, dove il 5° movimento descrive “la musica notturna, su di giri, delle città, che pulsa con energia nascosta e rapidi lampi. Le sirene e battaglie distanti costruiscono la tensione.” Qui il jazz torna a farla da padrone, con i suoi tipici accenti in levare, le sue figure melodiche veloci e ritmiche, gli accompagnamenti di batteria. A volte mi sembrava di essere in piena New York anni Trenta, continuamente passando da Gershwin a Duke Ellington, in un vorticoso e geniale avvicendarsi di brevi episodi. Il volto buono, dinamico e frizzate della città, quando l’uomo utilizza le sue energie per le cose belle, come l’arte e la musica. Ma le sirene (quelle di ambulanze e polizia) presto evocavano emergenze quotidiane, e preparavano al ritorno del cruento Circo Massimo, nel 6° movimento.

Dunque non si faceva in tempo a comprendere un’atmosfera, che subito si passava ad un’altra, e le trombe in sala ricominciarono il loro grido, ripetuto dall’orchestra sul palco e da tutti gli altri strumentisti. Addirittura ad un certo punto la piccola banda (una marching band, come la chiamano gli americani) iniziò a suonare marciando tra le fila del pubblico, con un effetto molto coinvolgente. Il picco di volume raggiunto fu quasi assordante, e mi resi conto che veramente il compositore voleva questo effetto di dolore quasi fisico, per rappresentare bene quanto di peggio l’uomo sta facendo a se stesso, ma scemò presto e molto gradualmente, preparando l’intenso movimento successivo.

La preghiera: questo il titolo, eloquente. I cristiani dei primi tempi venivano mandati a morire per il divertimento degli spettatori di Roma antica, e probabilmente morivano pregando, cercando di avere così la forza per superare quella terribile prova. Corigliano rende sublime questo momento attraverso una serie di concatenazioni accordali chiamate “cadenze plagali”, che sono di solito usate nella musica liturgica, e propongono solennità e pace. Su questi accordi innesta l’unica, vera, straordinaria melodia di tutta l’opera, che si dipana tra il corno inglese, il clarinetto e la tromba, in un commovente finale (quasi finale, in realtà) che si può comprendere appieno solo dopo aver affrontato il precedente e aspro viaggio musicale.

Perché poi veniva una breve coda, dal titolo Veritas, dove ancora gli echi del folle intrattenimento del Circo Massimo si avvertivano imperiosi. E così, come Pilato che chiedeva a Gesù “cos’è la Verità?”, anche il compositore si chiede (e ci chiede) se la Verità sia quella dolciastra, ma beffardamente tragica, presentata ogni giorno da insulsi spettacoli televisivi, o sia invece quell’antico canto che ancora cercava di farsi strada dentro l’impari lotta orchestrale. Il colpo di fucile finale non fu allora (e non sarà oggi) un facile “effetto speciale”, ma la logica e scioccante conclusione di un’opera che deve continuamente risuonare dentro il cuore degli ascoltatori.

All’uscita dalla Carnegie Hall, dopo i dovuti e scroscianti applausi a direttore, orchestra e compositore intervenuto sul palco, il pubblico era silenzioso, calmo, ma entusiasta (sembra un ossimoro ma non lo è), e New York era tutta diversa da come l’avevo lasciata: sceso il buio, le mille luci di quella straordinaria città si erano accese e iniziavano ancora una volta il loro canto tentatore di moderne Sirene.

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(a cura di Lorenzo Della Fonte)