Intervista ad Angelo Bolciaghi
Il pensiero musicale di un Direttore “sui generis”
Sono con Angelo Bolciaghi, a mio parere uno dei direttori più interessanti che abbiamo in Italia per conoscenze, esperienza, talento e capacità interpretative, ed allo stesso tempo una delle personalità più particolari. Ho dovuto penare non poco perché mi concedesse questa intervista, schivo e anticonformista com’è. Gli ho promesso, per convincerlo, un’intervista “diversa”, non convenzionale: una sorta di “viaggio” nel suo pensiero musicale e nel suo modo di vivere la Musica. “Tu formula le domande, poi vedremo” mi ha risposto serio.
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Maestro, intanto complimenti per le prove del Concerto del 24 Luglio con l’Orchestra di fiati dell’Istituto Musicale della Valle D’Aosta, alle quali ho avuto modo di assistere. Partirei da qui: essere direttore ospite comporta spesso una certa mole di lavoro da svolgere in poche prove con una compagine mai diretta; quali le strategie del Direttore per ottenere il miglior risultato nel minor tempo?
Per i complimenti grazie, li inoltro ai bravi strumentisti valdostani preparati da Walter Chenuill.
Si tratta di ottenere “un” risultato in “quel” tempo. Avere un direttore ospite è occasione di lavoro su specifici brani e autori. Soprattutto cerco di trasmettere il mio amore verso quella musica e quell’autore e di condividere subito con l’ ensemble i punti che mi commuovono di più, di essere sincero e di fare musica con gioia, comunicando che in “quel” momento quella è “la musica” più bella scritta degna di tutto il nostro impegno. Se riesco a convincere il gruppo di tutto questo, il resto diventa più facile.
Il risultato dipende anche dalla giusta disciplina di un gruppo e a mio avviso la giusta disciplina è quella si vede nell’ atteggiamento del musicista che non si rivolge solo alle note, ma mira all’esperienza spirituale. Questo spesso si legge negli occhi di chi ti sta davanti.
Va di moda il concetto “Prima la tecnica, poi la musica”. Lei cosa ne pensa?
Se è una moda, passerà. Non so di chi l’ha lanciata e se possa preoccupare. Nella sostanza, se la musica viene e la tecnica serve a quello, non vedo problemi. Che la questione vera sia che a volte si bada alla tecnica gestuale e non si pensa alla musica? O si pensa alla musica, ma il gesto tecnico non traduce l’ intenzione?
Forse ci poniamo il problema o la domanda quando uno dei due aspetti manca. E’ un po’ come voler risolvere unilateralmente e non unitariamente il classico rapporto tra parola e musica.
La tecnica diventa musica, la musica, tecnica. Succede che si tema il nostro stesso coraggio quando non si è sicuri della propria tecnica e, in questo stato d’animo, risolverne i nodi problematici è un modo per riuscire a concentrarsi da subito sull’essenziale.
A che punto risolvo l’aspetto tecnico? La strada è spesso indicata dalla musica stessa.
La tecnica è un mezzo per poter esprimere ciò che si è maturato nello studio, ciò che si ha dentro, l’immagine sonora, l’idea, il gesto di un brano. E’ un tramite – responsabile, ingombrante, necessario, limitato e illimitato – tra l’idea che il compositore affida a segni convenzionali sulla carta (e non ha altra scelta che affidarsi quei segni) e la traduzione sonora organizzata di tali segni da parte di esecutori.
Inoltre, nel caso di lavori con profondità musicale e spirituale, la tecnica molto spesso si “amalgama” all’evento sonoro: non si percepisce, ma è lì, con la musica. perché musica e tecnica non sono separate, non lo sono mai state. Un suono, un inciso, un motivo, la forma, il colore….sono aspetti di tecniche molteplici e viceversa, nel rispetto dei segni lasciati dal compositore che, anche quando illustrano le cose, ne descrivono l’anima.
Dentro la tecnica si nasconde sovente un mondo di idee, di associazioni e questo vale anche per la musica.
E’ la musica stessa ad aver generato la tecnica: un gesto musicale è anche un gesto tecnico ed entrambi necessariamente s’intrecciano. Ed è tutto scritto.
La difficoltà sta nel leggere, interpretare il segno, poiché questo, specie se è opera del genio, contiene tante cose del passato e del futuro. Bisogna saperle scoprire.
Ma sull’essenza della tecnica la discussione è sempre aperta.
Ho visto ricercare e richiedere, nel fraseggio musicale trasmesso attraverso la sua gestualità, le potenzialità del fraseggio musicale degli archi: continuum, orizzontalità, tensione, risonanza; potrebbe spiegarci come nasce in Lei e su quali presupposti l’idea di “direzione” di una frase e di tipologia di suono e timbro?
La melodia ha nella sua costruzione una direzione, un accento, un profilo. Se è opera di un genio succede che può essere tutto e il contrario di tutto assecondando la nostra sensibilità del momento.
Il canto ci aiuta, anche ad individuare il giusto “respiro”, le giuste pause anche nelle altre linee che sia accompagnamento o contrappunto.
L’orchestrazione, l’armonia e il ritmo armonico dell’autore contribuiscono a definire gli accenti, dai dettagli alla forma generale, c’è spesso un alternarsi di tensione e relax, come il nostro ritmo corporeo. Serve definire, creare semmai il peso di questi accenti, come distribuirli.
La tipologia di suono e timbro lo indica la partitura, che non si finisce di studiare. Utile è comprendere la scelta degli strumenti che è conseguenza di un suono che l’autore vuole. Quello di generare il/un tipo di suono è uno dei primi aspetti da cui partire. Sicuramente aspetto ancor più difficile avendo solo fiati. L’arco ha in sé molte sfumature a cui poter fare riferimento e l’arco si rifà spesso al canto.
La sua gestualità trasmette tutte le informazioni necessarie, è estremamente funzionale: quanta tecnica e quanto istinto?
Ringrazio del complimento. Non credo che la mia gestualità trasmetta tutte le informazioni necessarie, delle quali sono sempre alla ricerca. Se sia funzionale lo deve dire chi è davanti a me o l’autore. Le informazioni le scopro continuamente, cerco di capire sempre quali siano quelle necessarie, essenziali, e non vorrei mai che fossero tutte perché avrei finito di scoprire.
Tecnica, istinto: non so rispondere. Trovo benefico darsi dei limiti e lì dentro usare l’istinto e la tecnica. Così mi suggerivano i maestri che ho incontrato. Mi dicevano: meno è sinonimo di tanto.
Quanto il vissuto personale incide sull’interpretazione di una partitura? E cosa significa per Lei “interpretare”?
Il vissuto dà occhiali diversi per scoprire e comprendere nuove luci e colori. Un dolore incontrato rende più sensibili al dolore di cui sono intrise alcune partiture, e così la gioia. Il vissuto ti spinge verso la ricerca dell’essenzialità, della forma, della frase e del gesto musicale. L’importante è eseguire musica buona, di bravi autori perché la musica buona è universale e contemporanea: ha sempre cose da dire, come i classici.
Interpretare è anche leggere il segno nel modo più giusto ed essere fedeli il più possibile al testo.
E poi c’è la scelta del tempo, il tempo giusto in quel momento.
Emozionarsi, emozionare: verbi sin troppo inflazionati quando si parla di Musica, però hanno un loro senso; arrivato alla ventesima replica di una partitura, è ancora capace di emozionarsi ed emozionare?
Leggere una partitura è anche un viaggio emozionale attraverso lo spirito di un autore che rinasce ogni volta in una situazione organizzata di strumentisti coordinati e guidati da una persona. L’insieme è formato per generare con i suoni qualcosa di impalpabile, ma che può toccare corde speciali dell’anima. Mi emoziono tutte le volte che ho la possibilità di vivere la musica che rispetto. Siamo ogni volta diversi davanti a musiche diverse, si nasce e rinasce ogni volta.
E’ il dono della musica scritta. Non esiste replica.
Un (grande) interprete è un po’ come un grande attore: un ottimo interprete di tanti ruoli diversi. Quanto “recita” e quanto è “Bolciaghi” quando dirige?
Nella direzione siamo noi stessi, inevitabilmente, ma soprattutto ci guidano i desideri e i sogni. Nel vivere con la musica l’esperienza della nostra vita s’intreccia con altre sensibilità e con ciò che c’è in essa di universale. E’ la presenza del proprio io davanti al testo musicale che fa la differenza e la ricchezza nelle tante e continue letture.
Mi sento più Bolciaghi quando riesco a leggere a fondo una composizione, quando vi trovo affinità con la mia sensibilità e mi ci riconosco, ma anche quando faccio scoperte inattese. Mi sento Bolciaghi quando riesco con la lettura ad avvicinare il genio.
Incontrare grandi compositori attraverso le loro opere ci dà anche la possibilità di dimenticare per un po’ noi stessi e i nostri limiti: le note scritte sono le loro, un gran bel regalo. E noi regaliamo la nostra dedizione.
Lo studio della costruzione musicale e la lettura aiutano, così come l’ascolto.
Naturalmente parliamo di buona musica.
Una domanda un po’ più “concreta”: quali caratteristiche dovrebbero avere un bravo direttore ed un bravo compositore secondo Lei?
Un bravo direttore? Leggere oltre le note e dentro le note. Dirigere è anche il mezzo per esprimere la propria sensibilità che può emergere solo attraverso uno studio sempre più consapevole. La direzione implica anche sensibilità ed intuito verso altri esseri umani, principalmente verso quelli che compongono un ensemble e che sono la fonte di produzione del suono nei confronti dei quali bisogna sviluppare capacità di persuasione ed anche, se necassario, una pignoleria sorridente ed accrescere in loro il senso di appartenenza ad un gruppo.
Non smettere mai di studiare e cercare. Importante è sviluppare l’orecchio e per questo ci sono particolari esercizi. Trovo utile un metodo alternativo, approfondito con un bravo maestro, di tecnica d’ ensemble che illustro nelle mie lezioni. Lezioni sempre impostate ad una visione globale della musica dove cultura, tecnica e sensibilità interagiscono tra loro.
Un compositore? Scrivere qualcosa in cui il maggior numero possibile di persone un giorno, se non subito, possano rispecchiarsi con tutto il loro essere; qualcosa che migliori la qualità del vivere e ci dica ciò che non abbiamo il coraggio di esprimere. Come i poeti.
Per un bravo compositore la ‘commissione’ è giusto modo per vivere: il ricevere una commissione è quindi legittimo, ma non deve allontanare dallo scrivere musica che si sente veramente e scadere in un commerciale senza spirito.
Chiudiamo con un aforisma di Listz: “Noi dobbiamo riconoscere due categorie di artisti, cioè quelli che producono e quelli che interpretano, e convenire che non passa fra essi che questa differenza materiale”. Verità per molti un po’ scomoda: che ne pensa?
Concordo. Ci sono anche altre due categorie: quelli che usano la musica per mettere in mostra loro stessi e quelli che sono al servizio della musica e del compositore.
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Maestro Bolciaghi, non posso che ringraziarla per le sue – vere – parole. Sono le parole di un Musicista che parla attraverso la sua anima di interprete.
Grazie per aver fatto un’eccezione ed aver così reso disponibile il suo pensiero. Tanti auguri per la sua attività, e buona Musica.
(a cura di Alessandra A.)